Omelia Giovedì Santo 2020
Carissimi fratelli e sorelle,
con la celebrazione di questa sera entriamo nel triduo pasquale, in questi tre giorni siamo invitati a tuffarci nell’amore di Dio. È vero, viviamo un momento molto difficile e di grande sofferenza, anche per non poter vivere appieno il cuore della nostra fede: l’evento che ha cambiato il mondo. Dobbiamo restare a casa e allora facciamo delle nostre case, delle nostre famiglie, il cenacolo, Gesù è presente, ci parla cuore a cuore e certamente darà al nostro cuore sofferente, angosciato, pace e speranza.
Questa sera, Giovedì Santo, viene dato alla chiesa e ad ognuno di noi un triplice dono: l’Eucaristia, il sacerdozio, il comandamento nuovo.
Permettetemi di iniziare dal dono del sacerdozio, che può essere considerato insieme all’Eucaristia un parto gemellare e scusatemi se, questa sera, non parlo della grandezza del dono ma della povertà di chi lo ha ricevuto. La mia povertà, la mia fragilità, in questi giorni sento la vostra mancanza, vivo nel dolore di non poter servire appieno la mia comunità, non perché non posso “fare” alcune cose, ma perché sento l’ansia che l’amore di Dio non possa raggiungere proprio tutti in questo periodo difficile. Questo distacco forzato mi richiama alla mente ciò che, a volte, succede tra marito e moglie, quando uno dei due è costretto per vari motivi a vivere lontano dalla famiglia. Per esempio, quando alcuni nostri papà sono costretti ad andare lontano per il lavoro. Ebbene, quanta sofferenza, tanto per chi parte che per chi resta. Eppure non manca giorno in cui, se pur distanti, gli sposi si sentono, si parlano, si scambiano dolci parole e magari qualche lacrima solca il loro viso. Ma nel loro cuore c’è la speranza che presto questa quarantena finirà, si riabbracceranno ancora, staranno di nuovo insieme nella stessa casa con i figli. Questo fanno i sacerdoti “al tempo del coronavirus”: celebrano l’Eucaristia ogni giorno, che è il modo migliore per sentirsi in comunione con le persone amate, cercano di non far mancare ai propri figli, soprattutto quelli più bisognosi, il pane, una parola di consolazione e di speranza: “abbi fede, Cristo ha vinto la morte, passerà questo momento difficile”. Sì, i sacerdoti soffrono perché in questi giorni le loro mani tremanti e fragili non possono far nascere e rinascere, accarezzare e incoraggiare, stringere e dare forza, spezzare e consacrare per tutti i figli.
Il secondo dono che riceviamo questa sera è l’istituzione dell’Eucaristia. Nell’ultima Cena, prefigurazione di cosa sarebbe avvenuto sulla croce, Gesù spezza il pane. Come ci narra San Paolo nella seconda lettura: “Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: questo è il mio corpo che è per voi…questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue”. Memoriale dolcissimo: il tuo corpo e il tuo sangue Gesù per la mia vita, la tua morte per la mia salvezza. Presentiamo al Signore, questa sera, la sofferenza di non poter partecipare a messa, di non poter ricevere la comunione, forse tante volte Tu hai desiderato ardentemente fare pasqua con noi, ma noi eravamo impegnati, distratti, lontani. Sì, questa mancanza ci fa riflettere…la comunione spirituale non è la stressa cosa, abbiamo bisogno di te, dell’eucaristia, presenza sacramentale di Gesù, momento più alto di comunione. Pane che ci nutre e ci dà forza, farmaco di immortalità.
Il terzo dono: il comandamento dell’amore, il testamento dell’amore che diventa un mandato per tutti noi. Gesù compie questo gesto scandaloso: si spoglia delle sue vesti e lava i piedi ai suoi discepoli. Questa sera non faremo questo segno, ma forse possiamo vivere davvero il suo significato: vivere la nostra vita nella comunione e nel servizio. Allora saremo capaci di piegarci sui piedi dell’umanità dolorante, ferita, maleodorante.
Speriamo e preghiamo che presto tutti possiamo tornare a “casa”, per vivere e celebrare L’Amore e allora, sarà il bacio e l’abbraccio più bello.
Amen.