Non “fuori” ma “dentro”: la logica del dramma
Fratelli e sorelle carissimi,
con l’azione liturgica di questo Venerdì Santo siamo posti dinanzi al “dramma della Croce”. Il termine dramma ha origine nel mondo greco ed indica un componimento scritto destinato alla rappresentazione scenica, una narrazione che prende vita. Il dramma si colloca a metà strada tra il tragico e il comico, accomunato con essi dal tentativo di esorcizzare la vita, di reagire dinanzi a ciò che la sconvolge, nel bene e nel male. Dramma, nella sua etimologia, significa azione, storia e risponde all’innato bisogno dell’uomo di essere attore e protagonista della propria vita.
Pensiamoci: dinanzi ad una notizia piacevole o spiacevole (la nascita di un figlio o la morte di una persona cara), laddove le parole sembrano non bastare per esprimersi e dar senso, l’uomo reagisce “agendo”: fa salti di gioia o tira pugni di rabbia, abbraccia o fugge gli abbracci. In una parola “drammatizza” la vita, la mette in scena dandole una personale interpretazione, si appropria in modo unico della sua storia.
La parola dramma è poi passata ad indicare anche una vicenda triste, dolorosa, difficile da affrontare e dall’esito incerto. Spesso esclamiamo: “È un vero dramma!” per riferirci ad una situazione che ci sfugge di mano e che appare ingestibile.
In questo Venerdì Santo 2020, forse più che mai, siamo dinanzi ad una situazione doppiamente drammatica. Come ogni anno, infatti, siamo condotti dalla liturgia al cuore del dramma della Passione. Diversamente da ogni anno, tuttavia, siamo costretti dalla vita a farci carico di un altro dramma, quello del Covid-19 e del veleno di ansia e di morte che sta, ormai da mesi, infettando il nostro mondo. Dramma della Croce e dramma della vita si intrecciano: l’uno, quello della vita, invera e attualizza l’altro, quello della croce. L’altro, quello della croce, illumina e orienta l’uno, quello della vita.
Dinanzi al dramma, cari fratelli e sorelle, non si può rimanere indifferenti: o si sceglie di esserne attori oppure si sceglie di esserne spettatori. O ci si fa carico della drammatizzazione e se ne fornisce una propria e personale interpretazione o ci si limita ad accogliere quella altrui.
Detto in altri termini, forse più chiari: rispetto al dramma o si sta “dentro” o si resta “fuori”!
La Parola di Dio proclamata in questa azione liturgica ci presenta un Gesù che sta pienamente dentro al dramma della Sua passione. Non lo evita ma lo sceglie: “Il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?” (Gv 18,11). Non lo sottovaluta ma ne è consapevole: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo” (Gv 18,37). Non vi assiste ma vi prende parte: “Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… è stato trafitto, schiacciato” (Is 52, 4-5).
Di fronte al dramma dell’ “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53, 3) le reazioni sono diverse: molti dei discepoli fuggono; uno, Pietro, segue ma si tiene fuori rinnegando; un altro, Giovanni, il discepolo amato, partecipa osservando e dando testimonianza, altre ancora, la Vergine Addolorata e le altre due Marie, semplicemente “stanno”, lasciandosi coinvolgere nell’ultimo spirare del Crocifisso che tuttavia è anche il primo respirare della Chiesa.
Il dramma del Crocifisso si ripresenta nei drammi che l’uomo vive, anche in quello del momento presente. Di fronte ad esso, noi come intendiamo reagire? Come allora ai piedi della Croce, così ora ai piedi di questa croce, quella del coronavirus, o reagiamo agendo o desistiamo arrendendoci! Come nel dramma di quella Passione che dà salvezza, così nel dramma di questa passione la vera questione non è “venirne fuori” ma “starci dentro”. Anzi, solo standoci dentro ne verremo fuori! Solo accettando il dramma della morte Cristo ne è venuto fuori ed è stato risuscitato dal Padre e così ci ha tirati fuori, promettendoci che dove è Lui, lì saremo anche noi. Solo vivendo il momento presente potremo non soltanto dire ma percepire come profondamente vero che “#andràtuttobene”. Il dramma si supera vivendolo non ignorandolo, accettando che possa ferirci e farci male non anestetizzandolo, credendo fermamente non che “tutto tornerà come prima” ma che “tutto sarà meglio di prima”, che cioè il meglio non sta in ciò che abbiamo perduto ma che il meglio deve ancora venire!
Cari fratelli e sorelle, la fede ci insegna, e questi giorni di Triduo Pasquale ce lo ricordano in modo potente, che non esiste un “tempo dis-graziato”, cioè privo della grazia di Dio. Non c’è tempo senza Dio e non c’è tempo, anche il peggiore ed il più difficile, che non possa rivelarsi occasione di grazia, opportunità per riappropriarsi della propria vita e della propria storia, di ciò che è essenziale e davvero conta, possibilità per prendere parte al grande e divino dramma che è la storia della salvezza.
La logica del dramma della Croce di Cristo diventi allora la logica di questo dramma, la logica di ogni dramma che l’uomo vive: non “fuori” ma “dentro”.
Amen.